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Consulenti Agronomi Maurizio Chiappi e Antonio De Masi, esperti agronomi con conoscenze professionali ed esperienza, apprezzati dai propri clienti e dalle aziende presso cui prestano servizio e consulenza.

117924_420x270Diventerà sempre più complicato effettuare i trattamenti in campagna con diserbanti e antiparassitari. Con l'adozione da parte delle varie Regioni del cosiddetto Pan, il Piano d'azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, sono previste limitazioni nella difesa fitosanitaria non solo allo scopo di ridurre i quantitativi di prodotti chimici utilizzati finora, incoraggiando la difesa integrata delle colture, ma verranno introdotte vere e proprie no fly zone, o meglio no spray zone, dove non sarà possibile effettuare trattamenti di alcun tipo.

Sensibili anche le piste ciclabili - È il caso delle limitazioni introdotte dal legislatore all'uso dei prodotti fitosanitari nei pressi di trattamentiaree utilizzate dalla popolazione, proposito condivisibile come è ovvio per evitare di trattare vicino ad aree come parchi pubblici, campi sportivi, scuole, parchi gioco, frequentate spesso da bambini e ragazzi. Ma fra le aree cosiddette sensibili sono state inserite anche le ciclabili. Sappiamo che i Comuni italiani hanno in questi anni introdot-to migliaia di chilometri di piste per ciclisti, spesso in sfregio ai campi agricoli o addirittura frazionando corpi aziendali. Ebbene, non tutti sanno, soprattutto i diretti interessati, gli agricoltori, che non si potrà trattare fasce di rispetto lungo le ciclabili di larghezza inferiore a 30 metri! In queste fasce, che per appezzamenti molto lunghi potrebbero rappresentare una parte sensibile della superficie aziendale, il Pan prevede il ricorso a mezzi alternativi per il controllo di malerbe e parassiti, come mezzi meccanici, fisici e biologici. La norma afferma anche che la distanza minima dalle piste ciclabili di 30 metri può essere ridotta a 10 metri se l'operatore utilizza misure di contenimento della deriva (ad esempio barre da diserbo a manica d'aria), fatte salve, però, misure più restrittive determinate dalle autorità locali competenti. In altre parole, i comuni o altri enti territoriali potrebbero comunque pretendere i 30 metri, pur in presenza delle suddette misure di contenimento della deriva.

Maggiori costi colturali - Che si tratti di 30 o 10 metri, evidentemente, per i malcapitati agricoltori che si trovano ad avere a che fare con le ciclabili, vengono introdotte vere e proprie limitazioni all'attività agricola, non immaginabili al momento della costruzione delle piste stesse. Trattandosi di divieti e vincoli, ne consegue l'insorgenza di maggiori costi colturali. A parte la seccatura di dover stare attenti a misurazioni di ogni tipo nel corso dei trattamenti, è ovvio che il ricorso al controllo meccanico delle malerbe lungo tali fasce di rispetto, oppure l'utilizzo, quando possibile, di tecniche di controllo biologico per insetti e patogeni fungini, imporrà ai produttori agricoli interessati come minimo maggiori costi, ma spesso l'impossibilità di coltivare le normali colture agrarie previste dall'ordinamento colturale. Come si potrà coltivare mais, barbabietola o pomodoro in tali aree reputate sensibili? Molti, come è lecito pensare, troveranno la soluzione di rimpiazzare il seminativo con prati, che non dovranno essere trattati. Il tutto, comunque, con maggiori costi e minori rese. E chi pagherà questi costi e mancati redditi? Ovvio, la norma a tal proposito non dice nulla.

Fasce tampone lungo i corsi d'acqua - Quindi tempi duri per gli agricoltori alla prese con tali fasce di rispetto. Ma non dobbiamo dimenticare che già oggi esistono strisce di terreno che non possono addirittura essere coltivate. È il caso delle fasce tampone lungo i corsi d'acqua, previste dalla norma della condizionalità dei premi Pac, in cui, secondo quanto normato dalle Regioni, da alcuni anni non è possibile coltivare lungo torrenti, fiumi o canali, per larghezze comprese fra 3 e 5 metri. Le fasce tampone, infatti, devono essere inerbite e comunque non fertilizzate, rappresentando una vera e propria tara aggiuntiva a quelle già presenti in azienda. Il loro rispetto, come sappiamo, è poi oggetto di controllo e di eventuale regime sanzionatorio sui premi comunitari.

Efa e azotofissatrici: 5-10 metri dai fossi -
Infine, la nuova Pac, secondo gli intendimenti del Mipaaf, potrebbe introdurre un'ulteriore limitazione nella coltivazione dei terreni agricoli. Nella bozza di decreto ministeriale di recepimento della nuova riforma, in corso di approvazione, è sì prevista la coltivazione delle colture azotofissatrici al fine di costituire le aree di interesse ecologico previste dal greening (Efa), ma tali colture non potranno essere effettuate a meno di 10 metri dal ciglio di sponda dei corpi idrici principali individuati dalle Regioni e comunque a meno di 5 metri dalle sponde dei canali secondari. Ciò obbligherà gli agricoltori costretti a costituire le Efa a non seminare leguminose lungo canali, fossi e fiumi, inserendo al loro posto vere e proprie fasce tampone inerbite.

Insomma, gli agricoltori, che si tratti di piste ciclabili, colture azotofissatrici e fasce tampone, dovranno armarsi di cordella metrica e calcolatrice. Il tutto con meno superficie coltivabile e maggiori costi di produzione.

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117923_420x270L’Europarlamento ha dato l’ok definitivo alla direttiva che consentirà ai Paesi membri dell’Ue di limitare o proibire la coltivazione di ogm (organismi geneticamente modificati) sul territorio nazionale, anche se questi sono autorizzati a livello europeo.

La nuova legislazione è stata approvata con 490 voti favorevoli, 158 contrari e 59 astenuti (verdi e 5 stelle). Ora mancano solo l’imprimatur del Consiglio e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale Ue, poi toccherà a ogni Paese recepire le nuove regole, in primavera.

Al momento, l’unico ogm autorizzato nell’Ue è il mais resistente alla piralide MON 810 coltivato in Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania. Vietato invece in Austria, Bulgaria, Grecia, Germania, Ungheria, Italia, Lussemburgo e Polonia. La patata ogm “Amflora” è stata invece vietata dal Tribunale Ue nel 2013, dopo l’iniziale via libera della Commissione europea.

Le nuove norme dovrebbero consentire agli Stati membri di vietare la coltivazione degli ogm per motivi di politica ambientale diversi dai rischi per la salute e per l’ambiente già valutati dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). Potranno inoltre vietare gli ogm per ragionicome la pianificazione urbana e rurale, l’impatto socio-economico, per evitare la presenza involontaria di ogm in altri prodotti e per obiettivi di politica agricola nazionale.

Gli Stati membri potranno inoltre, chiedere alle imprese produttrici di ogm di escludere i loro territori dal novero dei Paesi nei quali intendono chiedere l’autorizzazione europea alla coltivazione. Questa fase negoziale con le imprese non è peraltro più obbligatoria e gli Stati membri potranno decidere di passare direttamente al divieto di coltivazione. Infine, prima di vietare la coltivazione, gli Stati dovranno comunicarlo alla Commissione Ue e attendere 75 giorni per il parere, periodo durante il quale gli agricoltori non potranno comunque seminare i prodotti interessati.

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http://www.minambiente.it/bandi/bando-pubblico-prevenzione-spreco-alimentare 

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imagesAnche la nostra pasta potrebbe subire gli effetti dei cambiamenti climatici. Nell’arco dei prossimi quaranta anni il piatto simbolo del made in Italy sarà chiamato necessariamente ad evolversi, ad adattarsi alle mutate condizioni atmosferiche e in particolare all’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica nell’aria. Pena perdita di qualità.
«Possiamo dire, semplificando, che i cambiamenti climatici sono promossi da un aumento della concentrazione della CO2 nell’atmosfera, che a sua volta determina il cosiddetto effetto serra con conseguente innalzamento della temperatura media, scioglimento dei ghiacci, maggiori rischi di eventi estremi (sia siccitosi, sia piovosi). Esistono scenari climatici differenti per i prossimi decenni, ma di sicuro sappiamo che la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è destinata ad aumentare: fino alla metà del secolo scorso si aggirava intorno alle 320 ppm (parti per milione), oggi siamo a 400 e nel 2050 dovremmo superare le 500». Ad affermarlo è Luigi Cattivelli, ricercatore del Centro di ricerca per la genomica del Cra e coordinatore di un progetto sperimentale volto a comprendere le implicazioni dei cambiamenti climatici sulla produzione e la qualità del frumento duro. «È chiaro che l’agricoltura è fortemente influenzata dal clima. Si ipotizza che nei prossimi anni alcune colture “mediterranee” come la vite o l’olivo verranno coltivate nel centro nord Europa. L’Italia, e in particolare il Mezzogiorno, potrebbe dover fronteggiare un aumento dei rischi di siccità e di eventi meteo particolarmente intensi, la diffusione di nuove specie o razze di patogeni, ma di sicuro non cambieremo le nostre produzioni tipiche».

Se rinunciare non è contemplato, adattarsi è d’obbligo. E qui entra in gioco il progetto DuCO (Durum wheat adaptation to global change) coordinato da Cattivelli e realizzato nell’ambito di Ager in collaborazione tra Cra, Cnr ed Enea. In che modo potrebbe mutare la coltivazione, la resa e la qualità del frumento in uno scenario di aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’aria? «In pratica abbiamo voluto attualizzare una condizione futura».

Per farlo i ricercatori hanno coltivato, presso un campo sperimentale a Fiorenzuola D’Arda e per due intere stagioni (2011-2013), 12 diverse varietà di frumento duro (molte in commercio) cresciute sia in condizioni “normali”, sia con una concentrazione di CO2 nell’aria pari a circa 570 ppm (valore atteso per il 2050). «L’aspetto importante è che, grazie all’utilizzazione del sistema Face (Free air CO2 enrichment - Arricchimento dell’aria aperta con CO2) abbiamo potuto testare la risposta delle piante in pieno campo, senza alcuna barriera fisica».

Due i macro-risultati della sperimentazione: aumento generalizzato della produzione e parallela diminuzione del contenuto proteico.
Questo perché l’anidride carbonica rappresenta un “fertilizzante” naturale per le piante, che crescono di più, ma subiscono un calo nel valore proteico, un parametro qualitativo fondamentale per il frumento duro e quindi per la nostra pasta.

«Interessante è che abbiamo registrato una grande variabilità di risposta: da un aumento della resa del 3-4% a un incremento superiore al 20% per alcune varietà. Stesso discorso, per il contenuto proteico: la diminuzione oscilla tra quasi 0 e il 10%». La sperimentazione ci offre insomma uno strumento per scegliere le caratteristiche che dovranno avere le piante adatte alla coltivazione nel futuro. «Abbiamo 40 anni di tempo per predisporre le varietà più indicate» e abbiamo gli strumenti per non farci trovare impreparati di fronte a uno scenario diverso, ma non ingestibile. Il prossimo passo, finanziamenti permettendo, sarà testare le risposte del frumento a un altro fattore collegato ai cambiamenti climatici: la disponibilità idrica.

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117917_420x270La diversificazione è uno dei tre impegni del greening (tab. 1) entrato in vigore con la nuova Pac, dal 1° gennaio 2015.
L'applicazione della diversificazione suscita molte domande per i suoi molteplici aspetti applicativi nei tanti casi pratici che caratterizzano l'agricoltura italiana.

Quando si applica?

La diversificazione delle colture si applica solamente ai seminativi, mentre le colture permanenti (frutteti, oliveti, vigneti, prati e pascoli permanenti) sono esentate.
Questo impegno si applica nelle aziende con più di 10 ettari a seminativo. L'impegno prevede la presenza di (tab. 2):

• almeno due colture nelle aziende la cui superficie a seminativo è compresa tra 10 e 30 ha, nessuna delle quali copra più del 75% della superficie a seminativo (tab. 3);
• almeno tre colture nelle aziende la cui superficie a seminativo è superiore a 30 ha, con la coltura principale che copre al massimo il 75% della superficie a seminativo e le due colture principali al massimo il 95% (tab. 4).
Nelle tabb. 3 e 4 sono riportati alcuni casi pratici di rispetto o non rispetto della diversificazione.

Le suddette percentuali non si applicano qualora l'erba o le altre piante erbacee da foraggio o i terreni lasciati a riposo occupino più del 75% dei seminativi. In tali casi, la coltura principale sui seminativi rimanenti non occupa più del 75% di tali seminativi rimanenti, salvo nel caso in cui dette superfici rimanenti siano occupate da erba o altre piante erbacee da foraggio o terreni lasciati a riposo (tab. 5).

Quando non si applica?

Gli impegni della diversificazione non si applicano nelle aziende:
• con superfici a seminativo inferiori a 10 ettari;
• i cui seminativi sono utilizzati per più del 75% per la produzione di erba o altre pian-te erbacee da foraggio, per terreni lasciati a riposo, o sottoposti a una combinazione di tali tipi di impieghi, a condizione che i seminativi non sottoposti a tali impieghi non siano superiore a 30 ettari (tab. 6);
• la cui superficie agricola ammissibile è costituita per più del 75% da prato permanente, utilizzata per la produzione di erba o altre piante erbacee da foraggio o per la coltivazione di colture sommerse (es. riso) o sottoposta a una combinazione di tali tipi di impieghi, a condizione che i seminativi non sottoposti a tali impieghi non siano superiore a 30 ettari (tab. 7);
• se oltre il 50% della superficie dichiarata a seminativo non è stata inserita dall'agricoltore nella propria domanda di aiuto dell'anno precedente (2014) e quando, in esito a un raffronto delle domande d'aiuto basate sulle ortofoto ricavate dalle immagini da satellite o da aereo, i seminativi risultano coltivati nella loro totalità con una coltura diversa da quella dell'anno precedente (2014).

La definizione di coltura

In base al Reg. 1307/2013 (art. 44, par. 4), per coltura si intende:
• una coltura appartenente a uno qualsiasi dei differenti generi della classificazione botanica delle colture;
• una coltura appartenente a una qualsiasi specie nel caso delle brassicacee (cavoli, broccoli, colza, ecc.), solanacee (pomodori, melanzane, peperoni, ecc.) e cucurbitacee (zucche, zucchine, meloni, cocomeri);
• i terreni lasciati a riposo;
• erba o altre piante erbacee da foraggio.

Facciamo alcuni esempi:
il grano duro e il grano tenero non sono colture diverse, in quanto appartengono entrambi al genere Triticum; idem per la veccia, il favino e la fava, in quanto appartengono tutti al genere Vicia;
il grano (genere Triticum) e l'orzo (genere Hordeum) sono colture diverse in quanto appartengono a generi diversi;
• il triticale viene classificato come appartenente al genere “Triticosecale”, quindi è una coltura diversa sia dal grano (Triticum) sia dalla segale (Secale).

Tutte le superfici seminate con miscugli di sementi, indipendentemente dalla composizione del miscuglio, si ritengono coperte da una singola coltura, denominata “coltura mista”. Ad esempio, una superficie ad erbaio misto di veccia e orzo, viene chiamata “coltura mista”.

La coltura invernale e la coltura primaverile sono considerate distinte anche se appartengono allo stesso genere; ad esempio un orzo invernale e un orzo primaverile sono considerate colture diverse.

La coltura diversificante

Il Reg.639/2014 (regolamento delegato sui pagamenti diretti) precisa che, in presenza di policoltura nello stesso anno, il periodo da considerare per l'individuazione della coltura diversificante è la parte più significativa del ciclo colturale, tenendo conto delle pratiche colturali tradizionali del contesto nazionale. Le rispettive quote delle diverse colture (2 o 3 colture) sono calcolate considerando che ogni ettaro della superficie totale a seminativi di un'azienda agricola è conteggiato una sola volta per ciascun anno di domanda.

In altre parole, su una superficie in cui si pratica la policoltura intercalare, coltivando una coltura seguita da una seconda coltura, la superficie si ritiene occupata esclusivamente da una sola coltura, detta “coltura diversificante”.

I paesi membri dovevano comunicare agli agricoltori il periodo che costituisce la parte più significativa del ciclo colturale. Il Decreto ministeriale n. 6513 del 18 novembre 2014 ha affidato questo compito ad Agea.

La Circolare Agea ACIU.2014.702 del 31 ottobre 2014 ha stabilito che il periodo nel quale si identificano le colture presenti in azienda ai fini della diversificazione va dal 1° aprile al 9 giugno, prendendo in considerazione le colture seminate o coltivate nel detto periodo di riferimento, che rappresenta la parte più significativa del ciclo colturale, comprendendo sia le colture autunno vernine (in fase conclusiva del loro ciclo) sia quelle primaverili estive (in fase iniziale del loro ciclo).

Il periodo di riferimento (1° aprile - 9 giugno) è il periodo all'interno del quale dev'essere rilevata la coltura diversificante; se in tale periodo sono presenti due o più colture, la coltura diversificante è quella con un periodo di coltivazione più lungo, facendo il conteggio dei giorni di ogni coltura dalla semina alla raccolta.

Il conteggio dei giorni, tuttavia, non è l'unico criterio per individuare la coltura diversificante. La Circolare Agea ACIU.2014.812 del 16 dicembre 2014 aggiunge che bisogna tener conto anche delle pratiche colturali tradizionali nel contesto nazionale.

A tale proposito, ad esempio, la suddetta Circolare Agea prevede, in relazione alle pratiche colturali tradizionali nel contesto nazionale, soprattutto per aree vocate, il mais da granella è sempre la coltura diversificante a meno che si tratti di secondo raccolto. Quindi il mais da granella è la coltura diversificante, anche se segue una coltura autunno-vernina (es. loietto) che presenta un conteggio di giorni più elevato (tab. 8).

Nel caso in cui la coltura autunno-vernina (es. loietto) è seguita da mais insilato, la coltura diversificante è il loietto, in quanto il mais si considera una seconda coltura (essendo a ciclo breve).

Analogamente nel caso in cui la coltura autunno-vernina è un cereale da granella (es. orzo da granella) a cui segue un mais da granella; in questo caso il mais è di secondo raccolto (ciclo breve) e la coltura diversificante è l'orzo (tab. 8).

Queste norme di Agea lasciano molta perplessità, sia per la complessità sia per le difficoltà interpretative. In tab. 8 riportiamo alcuni esempi.

Altri dettagli sulla diversificazione colturale

Nel caso di coltivazioni in cui si praticano simultaneamente due o più colture in filari distinti (policoltura contemporanea), ciascuna coltura è conteggiata come distinta quando occupa almeno il 25% della superficie complessiva.

La superficie coperta dalle colture distinte è calcolata dividendo la superficie coperta dalla policoltura per il numero di colture che coprono almeno il 25% della superficie, indipendentemente dalla quota effettiva di una coltura su di essa.

La superficie investita a una determinata coltura può inoltre comprendere elementi caratteristici del paesaggio.

Le aree degli elementi caratteristici del paesaggio che siano protette dalla condizionalità e/o considerate come EFA e che siano contenute nei seminativi aziendali, sono considerate parte della porzione corrispondente di seminativo e concorrono alla determinazione della superficie ammissibile ai fini della diversificazione colturale.

Controlli amministrativi e oggettivi

Al fine di consentire agli Organismi pagatori la verifica del rispetto delle diverse quote, gli agricoltori, prima della presentazione della domanda di aiuto, devono aggiornare il proprio fascicolo aziendale dichiarando nel piano colturale tutte le informazioni necessarie a identificare le colture principali, che occupano i terreni a seminativo dell'azienda. evitando sovrapposizioni.

Il controllo di tipo amministrativo viene svolto sul 100% delle aziende che devono rispettare l'obbligo della diversificazione ed è svolto sulla base delle dichiarazioni riportate nel piano colturale. I controlli di tipo oggettivo vengono svolti sul 5% delle aziende che devono rispettare l'obbligo della diversificazione ed è effettuato mediante telerilevamento seguito, ove necessario, da visite di campo.

Fonte: http://www.agricoltura24.com/diversificazione-come-applicarla-nel-modo-giusto/0,1254,54_ART_9018,00.html

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117916_420x270Quali sono le ragioni dell’oramai endemica crisi del settore pesche e nettarine in Italia? Diamo una occhiata alle statistiche.
Per quanto riguarda l’Europa dal 2000 al 2013 (escludiamo l’annus horribilis 2014 di proposito) il quadro produttivo mostra una sostanziale stabilità: la produzione totale è pari a circa 2,8 milioni di t. Si nota che dal 2000 l’Italia è passata da 1,6 a 1,5 milioni di t; la Francia da 450.000 a 300.000 t, trend simile a quello della Grecia. In controtendenza invece la Spagna, la cui produzione è in pratica raddoppiata, dalle 500.000 t del 2000 alle 900.000 t del triennio 2011/2013. In pratica quello che hanno perso la Francia e la Grecia lo ha guadagnato la Spagna.

Nuove aree produttive - È quindi la Spagna il principale competitor continentale: con il nuovo secolo la peschicoltura si è spostata dalle aree di primizia (l’Andalusia…) alle regioni del Nord con raccolta “tardiva” (Catalogna, Roja, Navarra e Aragona) che rappresentano oggi il 67% della produzione totale iberica (340.000 t in Catalogna e 270.000 t in Roja, Navarra e Aragona). Per la Spagna va inoltre considerata la straordinaria diffusione delle pesche piatte, un vero e proprio caso commerciale e produttivo, se è vero che le raccolte sono passate dal 2010 al 2014 da 55.000 t a 215.000 t (+290%).

Ci resta la Scandinavia - Dalla fine di luglio alla prima quindicina di agosto la sempre importante offerta italiana si scontra con le crescenti produzioni di Catalogna e Aragona. Si scontra e negli ultimi anni perde. L’esportazione italiana appare negli ultimi anni stabile, mentre è in netta crescita quella spagnola. Si osserva quindi come Germania, Regno Unito e Polonia sono oramai prevalentemente dominati dalla produzione spagnola mentre solo il mercato scandinavo appare ancora saldamente in mani italiane. Da notare che sulle piazze del centro e del Nord Europa i consumi appaiono fondamentalmente stabili, con alti e bassi di carattere principalmente congiunturale. La relativa stabilità dei consumi europei di pesche e nettarine testimonierebbe quindi il coraggio degli imprenditori spagnoli che, pur (si suppone) avvalendosi dei fondi europei, negli ultimi anni hanno incrementato e spostato la propria produzione nel periodo dell’anno di maggiore conflittualità per quanto riguarda l’offerta (sempre metà luglio-metà agosto). Un’operazione che sembra ben riuscita e non pare casuale. Si presume che siano state considerate a priori delle debolezze da parte della offerta primadominante, ovvero quella italiana. Le pesche e le nettarine spagnole nel pieno dell’estate devono quindi essere percepite dagli europei come più buone visto che, spesso, il prezzo, non è competitivo. Si aggiunga poi la già citata innovazione delle pesche piatte, prodotto di grande successo che giova (e addolora) ricordarlo, è un’invenzione italiana (poi ceduta appunto agli spagnoli).

Qualità organolettica, fattore vincente
Appare chiaro, forse banale, che il fattore vincente è la qualità organolettica. Nei paesi importatori come nei paesi produttori (che sono anche grandi consumatori). Sarebbe allora utile per tutti i produttori europei di pesche e nettarine cercare di fare aumentare i consumi in alcune nazioni non produttrici, i cui consumi appaiono tutto sommato esigui e teoricamente ancora capaci di crescere. Molto importante sarebbe anche sostenere il consumo di prodotti di elevata qualità nei paesi produttori, ove è molto evidente che si registrano di gran lunga le maggiori incidenze di acquisto in Europa e dove (Francia docet) vi è sempre una grande domanda di frutta buona da mangiare.

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117884_420x270Dal 1° gennaio 2015 è entrata in vigore la nuova Pac, di cui il greening costituisce la novità più importante.

L’applicazione del greening preoccupa molti agricoltori e suscita molte domande; in effetti, la normativa sul greening è molto articolata e complessa. Man mano che la normativa viene completata dai decreti ministeriali e dalle circolari Agea (tab. 1), la complicazione aumenta e le incertezze sono sempre più numerose.

Tuttavia l’agricoltore non ha alternative: deve conoscere la nuova normativa e applicarla con la massima efficienza, garantendosi il percepimento di tutti gli aiuti, senza diminuire la produzione e senza aumentare i costi.

In questo articolo, affrontiamo le domande più frequenti degli agricoltori, alla luce dei recenti chiarimenti del Ministero e delle ultime circolari Agea, in particolare la Circolare n. ACIU.2014.812 del 16 dicembre 2014, che fornisce importanti chiarimenti sulla diversificazione e sulle aree di interesse ecologico (EFA).

Localizzazione dei corpi aziendali sottoposti ai vincoli greening

Molte aziende sono costituite da più corpi aziendali, anche distanti tra loro, in alcuni casi in province diverse.
Come avviene il calcolo delle percentuali di diversificazione e delle EFA quando i seminativi si trovano in corpi aziendali differenti e discontinui della stessa azienda?

La definizione di “azienda” del Reg. 1307/2013 (art. 4) è la seguente: “tutte le unità usate per attività agricole e gestite da un agricoltore, situate nel territorio di uno stesso Stato membro”.
Questa definizione conferma chiaramente che ci si riferisce all’intero Stato Membro e non a una regione o ad altre delimitazioni geografiche. Quindi il calcolo della diversificazione e delle aree ecologiche dev’essere fatto sull’intera azienda, a prescindere dalle eventuali differenti dislocazioni delle unità aziendali.
Questa interpretazione presenta notevoli implicazioni per le situazioni nelle quali l’azienda agricola ha terreni sparsi sul territorio itaitaliano; ad esempio un agricoltore potrebbe coltivare interamente a mais un corpo aziendale a Cremona e destinare alle altre colture e alle EFA un corpo aziendale situato in Sardegna.

Greening per vigneti e oliveti

Un’azienda che ha solo superfici a vigneto e oliveto come fa a rispettare il greening e quindi a riscuotere il pagamento per il greening?

Gli impegni del greening sono (tab.2):
1) diversificazione delle colture (si applica ai seminativi);
2) mantenimento dei prati permanenti (si applica ai prati permanenti);
3) presenza un’area di interesse ecologico (si applica ai seminativi).
Un agricoltore che ha solo superfici a vigneto e oliveto non possiede seminativi e prati permanenti. Quindi non deve rispettare la diversificazione e le EFA, che si applicano alle aziende con una superficie a seminativi e non deve rispettare gli obblighi relativi ai prati permanenti. Di conseguenza, avendo diritto al pagamento di base e considerato che il greening è una percentuale del pagamento di base, l’agricoltore percepirà l’aiuto previsto per il greening senza dover praticare le tre azioni obbligatorie.

Tutte le sanzioni per il mancato rispetto

Un’azienda che dai controlli risulta non aver rispettato gli impegni del greening, viene sanzionata? Con quale gradualità?

Il mancato rispetto degli impegni del greening comporta l’applicazione di riduzioni sul pagamento “greening” (art. 77, par. 6, Reg. 1306/2013), in funzione della/e irregolarità riscontrate (articoli da 22 a 27 del regolamento UE n. 640/2014).
La riduzione dell’importo del pagamento greening, può arrivare al 100% nel caso di maggiore gravità del mancato rispetto.
I regolamenti non prevedono l’applicazione di sanzioni fino al 2017.
Dal 2017 in poi le irregolarità rilevate sul greening potranno tramutarsi in sanzioni applicabili anche sugli altri pagamenti.
Infatti, a partire dal 2017, il mancato rispetto del greening comporta una sanzione che va ad intaccare anche gli altri pagamenti (di importo pari al 20% del pagamento verde nel 2017 e pari al 25% dal 2018). In altre parole, dal 2017, l’agricoltore che non rispetta il greening perde tale pagamento e, in aggiunta, subisce una riduzione degli altri pagamenti pari al 20-25% del pagamento verde (tab. 3).

Coltura diversificante/1
Il periodo di riferimento

La circolare Agea ACIU 2014 n. 702 fissa il periodo per calcolare la diversificazione dal 1° aprile al 9 giugno. Nel caso di più colture che si succedono sulla stessa superficie quale è la coltura diversificante? Quella che viene per prima nel ciclo vegetativo? (Allora va stabilito da quando calcolo il ciclo). Oppure è quella che permane più a lungo nel periodo di os-servazione stabilito?
Faccio un esempio:
LOIETTO seminato il 27 ottobre 2014 e rac-colto il 10 aprile 2015. il 20 aprile viene seminato il MAIS DA GRANELLA che sarà raccolto il 15/09/2015.
Rispetto al ciclo colturale che, nella nostra zona va indicativamente dal 1° ottobre al 30 settembre dell’anno successivo, il loietto resta in campo 5 mesi e 14 giorni mentre il mais 4 mesi e 28 giorni quindi la coltura diversificante è certamente il loietto a semina autunnale.
Rispetto al periodo della circolare sopracitata per il loietto 10 giorni per il mais 1 mese e 20 giorni. In questo caso la coltura diver-sificante è senza dubbio il mais da granella.

Il periodo di riferimento (1° aprile-9 giugno) non è il periodo nel quale si riscontra la coltura principale, ma il periodo all’interno del quale devono essere comunque presenti le colture che si definiscono principali.
Quindi il periodo di coltivazione di ogni coltura sarà considerato nel suo complesso, ma deve comunque intercettare il periodo di riferimento.
Rispetto all’esempio, al di là del conteggio dei giorni di presenza in campo, la coltura di mais con ciclo di quasi 5 mesi non potrà essere considerata coltura secondaria.
Si consideri infatti l’articolo 40 del regolamento (UE) n. 639/2014, primo paragrafo: “1.
Ai fini del calcolo delle quote delle diverse colture di cui all’articolo 44, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 1307/2013, il periodo da considerare è la parte più significativa del ciclo colturale, tenendo conto delle pratiche colturali tradizionali nel contesto nazionale.” In relazione alle pratiche colturali tradizionali nel contesto nazionale, soprattutto per aree vocate, il mais è sempre stata la coltura centrale a meno che si tratti di secondo raccolto.
(Fonte: Circolare n. ACIU.2014.812 del 16 di-cembre 2014).

Coltura diversificante/2
Loietto-mais insilato

L’art. 40, paragrafo 1, del Reg. 639/2014, prevede che il periodo da considerare ai fini del calcolo delle quote delle diverse colture è la parte più significativa del ciclo colturale, tenendo conto delle pratiche colturali tradizionali nel contesto nazionale.

Quindi in presenza del seguente ordinamento colturale:
• LOIETTO - semina dal 01/10 al 20/10 e raccolta dal 01/05 al 20/05 ;
• in successione MAIS DA INSILATO - semina dal 20/05 al 15/06 raccolta dal 01/09 al 15/09.Quale è coltura diversificante, tenendo presente 8 mesi del loietto contro i 4 mesi del mais?

Il loietto è la coltura diversificante. Il mais è chiaramente una seconda PIANOterravitacoltura (ciclo breve). Se fosse stata una coltura di mais da granella la risposta sarebbe stata: il mais è la coltura diversificante (tab. 4).

Coltura diversificante/3
Loietto-mais granella

In presenza del seguente ordinamento colturale:
• LOIETTO - semina dal 01/10 al 20/10 e raccolta dal 01/05 al 20/05 ;
• in successione MAIS da granella - semina dal 20/05 al 15/06 raccolta dal 20/09 al 15/10.
quale è la coltura diversificante?

Il mais è la coltura diversificante. Agea, con Circolare n. ACIU.2014.812 del 16 dicembre 2014, ha precisato che le colture di cereali con destinazione produttiva da granella sono considerate normalmente come coltura diversificante (tab. 4).
Di conseguenza, all’interno di una successione colturale dichiarata sul medesimo terreno, una coltura primaverile estiva come il mais da granella o il girasole non potrà essere considerata coltura secondaria.

La diversificazionecon loietto-mais in successione

Un’azienda di 30 ettari con:
• 20 ettari a MAIS CLASSE FAO 700
• 10 ettari a LOIETTO + MAIS CLASSE FAO 300-400
Nel piano colturale, redatto nel periodo febbraio-maggio, sarà indicato parte della superficie a loietto e parte a mais semina dal 01/03 al 15/04, in questo caso la diversificazione è rispettata?

Si, perché l’azienda ha esattamente 30 ettari di seminativo e deve prevedere la presenza di due colture.
Nel caso in questione sono presenti le due colture e la principale occupa il 66% del seminativo, quindi inferiore al 75% fissato come soglia massima dal regolamento.
Se avesse avuto anche un ettaro in più, la risposta sarebbe stata no, perché sarebbe mancata la terza coltura (o le terze colture).
Nel caso in questione:
• sui 20 ettari a Mais Classe FAO 700, la coltura diversificante è il mais, in quanto è l’unica coltura presente;
• sui 10 ettari a Loietto e Mais Classe FAO 300-400, la coltura diversificante è il loietto, in quanto è la coltura più presente nel terreno (7 mesi), mentre il mais con varietà a ciclo breve è considerato come seconda coltura.

Più colture presenti in azienda

Nel caso di un’Azienda che ha 30 ettari di seminativi con colture così distribuite:
Grano 8 ettari
Mais 6 ettari
Zucchina 1 ettari
Pomodoro 2 ettari
Favino 5 ettari
Veccia 8 ettari
tenendo conto che si tratta solo di primo raccolto, qual è la coltura principale?

La Circolare ACIU.2014.702 si riferisce alle colture principali in relazione alla presenza, sullo stesso terreno e nella stessa annata agraria, di una successione di colture diverse. Tra queste, il beneficiario dovrà indicare la principale, rispettando le condizioni riportate nella circolare stessa.
Nel regolamento (UE) n. 1307/2013, articolo 44, ci si riferisce alla coltura principale come quella che occupa la maggiore quantità di superficie tra i seminativi a disposizione dell’azienda. Nel caso esemplificato, le colture principali sono il grano e la veccia, con otto ettari ciascuna, di cui nessuna supera il 75% della superficie totale. Il fatto che ogni ettaro è investito a colture a unico raccolto elimina le eventuali ambiguità sull’identificazione della coltura principale ai fini della diversificazione su ogni singolo ettaro di seminativo.
(Fonte: Circolare n. ACIU.2014.812 del 16 di-cembre 2014).

Azienda con solo erba

Un’azienda che produce solo erba ha assolto il greening per definizione?
Ad esempio, un’azienda che ha tutta la superficie investita a 160 ettari di erba medica non deve fare né diversificazione né Efa?

Un’azienda come quella indicata non deve fare diversificazione, perché tutti i suoi seminativi sono occupati da:
a) prato permanente, se il medicaio lascerà il terreno dopo 5 anni o più, oppure
b) colture per la produzione di erba o altre piante erbacee da foraggio.
Nel caso a), non deve rispettare i vincoli EFA, in quanto non ha più seminativi, ma dovrà rispettare i vincoli relativi ai prati permanenti.
Nel caso b), si considera aver rispettato il vincolo relativo alla presenza del 5% di EFA sui propri terreni, in quanto l’erba medica è tra le colture azotofissatrici elencate nell’allegato III del Decreto ministeriale n. 6513 del 18 novembre 2014.

Azienda con soia in rotazione

Una azienda che ha nel suo piano colturale:
20 ettari di grano,
10 ettari di soia,
6 ettari di sorgo,
rispetta gli impegni del greening?
Per quanto riguarda l’obbligo EFA lo può fare con 2,57 ettari di soia (2,57*0,7 =1,8 ettari di EFA, pari al 5% dei seminativi).

Il calcolo per la diversificazione è corretto:
• seminativi totali = 36 ettari;
• 20 ettari a grano, pari al 55%, inferiore al limite massimo del 75% per la coltura principale;
• 10 ettari a soia, pari al 28% circa, quindi le due colture principali (grano + soia) non superano il 95% del totale dei seminativi.
Per quanto riguarda le EFA, la soia, essendo un’azotofissatrice nell’allegato III del Decreto ministeriale n. 6513 del 18 novembre 2014, è considerata con un fattore di ponderazione pari a 0,7. Quindi 10 ettari di soia valgono (potenzialmente) fino ad 7 ettari di EFA.
(Fonte: Circolare n. ACIU.2014.812 del 16 di-cembre 2014).

Soia come azotofissatricee pagamento accoppiato

Un agricoltore rispetta i requisiti EFA tramite la produzione di una coltura azotofissatrice (ad esempio la soia al nord e il favino al centrosud). Può ottenere il pagamento accoppiato per le colture proteiche sulle stesse superfici?

L’articolo 46(10) del Reg. 639/2014 indica che lo Stato Membro stabilisce una lista di colture azotofissatrici e che questa lista deve contenere le colture azotofissatrici che lo Stato membro ritiene contribuiscano a migliorare la biodiversità.
La stessa coltura può essere ammissibile sia per il pagamento accoppiato che per il greening poiché gli obiettivi assegnati ad ognuno di questi schemi sono diversi. Proprio per quest’ultimo motivo, i criteri per definire le colture ammissibili ai due schemi sono diversi.
In particolare, la decisione di premiare le colture proteiche tramite il sostegno accoppiato deve essere basata su criteri legati al loro elevato contenuto di proteine e non alle loro caratteristiche e importanza come colture azotofissatrici.

Azotofissatrici non in purezza

In riferimento all’articolo 45(10) del Reg. 639/2014, è possibile inserire semi misti di colture azotofissatrici e altre colture all’interno della lista delle colture azotofissatrici?

No. L’articolo 45(10) del Reg. 639/2014 non prevede, ai fini della determinazione delle EFA, la possibilità di mescolare colture azotofissatrici con altre specie, per esempio specie erbose.

Fonte: http://www.agricoltura24.com/applicare-il-greening-domande-e-risposte/0,1254,54_ART_8991,00.html

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LOCANDINA PATENTINO Come previsto dall’ accordo Stato Regioni del 22/02/2012, a seguito di apposito corso formativo istituito dal CNR l' Organismo formativo “ConfaiAcademy” ha organizzato il primo corso individuale per addetti alla conduzione di trattori agricoli o forestali nella nostra Provincia. Il corso aperto a tutti,  si svolgerà mercoledì 4/2 e Venerdì 6/2/2015 in Bibbona (LI) ed avrà la durata di 16 ore, con svolgimento di parte teorica e pratica.
Al termine, dopo il superamento dell'esame teorico-pratico sarà rilasciata l’abilitazione.
Costo dell’evento formativo è di € 350,00 e l’iscrizione andrà effettuata direttamente sul sito: www.confaiacademy.it entro e non oltre il 23/01 p.v. con un numero limitato di 15 iscritti. Si potrà comunque contattare anche direttamente i nostri uffici. L’obbligo attualmente riguarda gli addetti alla guida di trattori agricoli senza i necessari requisiti previsti dalla legge.

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117703_420x270La nuova Ocm (organizzazione comune di mercato) per il periodo 2014-2020 ha confermato l’abolizione di tutti i precendenti strumenti di contenimento dell’offerta (Reg. 1308/2013): 
quote latte dal 1° aprile 2015; 
quote zucchero dal 1° ottobre 2017; 
diritti di impianto dei vigneti dal 1° gennaio 2016. 
Anche la viticoltura apre la strada alla completa liberalizzazione della produzione e finisce un’epoca, durata 30 anni, di rigido controllo degli impianti viticoli. Tuttavia, per questo settore rimane un carattere di eccezionalità nell’ambito della nuova Ocm tramite un certo livello di programmazione dell’offerta; infatti, contemporaneamente all’abolizione dei diritti di impianto dei vigneti dal 1° gennaio 2016, viene istituito un nuovo sistema di autorizzazione all’impianto, che – di fatto – rappresenta una liberalizzazione controllata.

La fine dei diritti di impianto

Il sistema vigente oggi, è imperniato sul concetto di “diritto di impianto o reimpianto”; esso cesserà ufficialmente di esistere il 31 dicembre 2015 (tab. 1). 

In sua sostituzione, è previsto un regime transitorio dinamico che può essere attivato a scelta da parte degli Stati membri, chiamato di autorizzazione all’impianto, che avrà una durata dal 2016 al 2030. L’Italia ha deciso di adottare tale regime. 

Dal 1° gennaio 2016, i viticoltori che vorranno impiantare nuovi vigneti non dovranno più acquistare i “diritti” da un altro produttore che espianta, ma dovranno richiedere l’autorizzazione gratuita, sulla base della disponibilità dei singoli Stati. Questa la novità più rilevante, per i viticoltori, nell’ambito della riforma della Pac 2014-2020.

Dal 1° gennaio 2016, i viticoltori che decidono di espiantare un vigneto regolare riceveranno un’autorizzazione all’impianto, che non sarà trasferibile; quindi potranno solamente impiantare il vigneto nella propria azienda, senza possibilità di venderla. 

Il viticoltore che intende espiantare un vigneto può anche ottenere un reimpianto anticipato di 4 anni, per l’entrata in produzione del nuovo vigneto, prima dell’espianto dell’altro vigneto. Il nuovo sistema di gestione del potenziale produttivo, basato sulle autorizzazioni, a partire dal 1° gennaio 2016 e fino al 2030, metterà fine al sistema dei diritti di impianto dei vigneti con l’obbiettivo di assicurare una maggiore flessibilità alle imprese, ma senza i rischi della temuta liberalizzazione.

Crescita dell’1% annuo

Dal 1° gennaio 2016, gli Stati membri possono concedere autorizzazioni gratuite ad impiantare nuovi vigneti per una quota non superiore all’1% annuo del totale vigneto nazionale.

Gli Stati membri avranno la facoltà di ridurre questa percentuale e limitarne il rilascio in zone specifiche (vini di qualità), tenendo conto delle raccomandazioni dei Consorzi di Tutela e/o Organizzazione di Produttori. 

Se le richieste di autorizzazione saranno superiori alla percentuale fissata dell’1%, le autorizzazioni saranno concesse in proporzione e/o in base a criteri di priorità: giovani produttori, requisiti ambientali, ricomposizione fondiaria, sostenibilità economica, incremento della competitività aziendale e di territorio, incremento della qualità dei prodotti a Dop-Igp, aumento della dimensione di aziende piccole e medie.

Questa clausola non significa che gli Stati membri possono liberamente ridurre o limitare la concessione di autorizzazioni all’impianto di vigneti; anzi tali politiche restrittive dovranno essere giustificate (es. rischio di offerta eccedentaria o svalutazione dei prodotti a Dop o Igp), al fine di contribuire ad un aumento ordinato degli impianti vitati.

Fra diritto e autorizzazione

Sia il “diritto” d’impianto che il nuovo sistema di “autorizzazione” hanno la stessa finalità, quella di consentire al soggetto titolare di impiantare un vigneto all’interno di un sistema di contenimento dell’offerta; ciononostante le differenze sono notevoli tra diritto e autorizzazione (tab. 2). 

Innanzitutto, il diritto è oggi commercializzabile, quindi si può venderlo senza la terra. Questa opzione non è invece prevista nel sistema francese, dove ogni diritto all’impianto è sempre legato a una particella di vigneto. In Italia, il diritto ha quindi un valore di mercato, direttamente proporzionale alla domanda e offerta di diritti d’impianto. 

L’autorizzazione imita lo schema francese: essa viene concessa dall’Autorità pubblica (Stato o Regioni) e non può essere compravenduta neppure a titolo gratuito. Con il nuovo sistema di autorizzazioni, a ogni viticoltore che espianta viene automaticamente concessa la possibilità di richiedere un’autorizzazione per il reimpianto del medesimo ettaro; ma se l’autorizzazione non viene esercitata nella sua azienda, si perde.

La grande differenza tra il sistema dei diritti e quello delle autorizzazioni è quindi la commerciabilità, con le sue conseguenze. Il diritto, oltre ad una sua naturale scadenza più ampia rispetto all’autorizzazione (cinqueotto campagne a seconda delle regioni), consentiva innanzitutto più opzioni al produttore: 
- piantare il vigneto; 
- vendere il diritto, separatamente dalla terra. 
Il diritto aveva quindi un suo valore patrimoniale.

Cosa succederà ai diritti in portafoglio?

Oggi, in Italia, sono in circolazione circa 50.000 ettari di diritti: di questi, il 90% sono detenuti dai produttori, il resto è nelle riserve regionali. 

La nuova Ocm prevede che tutti questi diritti in portafoglio possano essere convertiti in autorizzazioni nel momento in cui andrà a regime il nuovo il sistema. 

Dal 1° gennaio 2016, quindi, in Europa non si avranno più diritti, ma solo autorizzazioni; nessuna di queste potrà essere compravenduta e ceduta a terzi.

La proroga italiana

In sede di negoziato sulla Pac 2014-2020, proprio in considerazione dell’alto numero di ettari detenuti in forma di diritti, l’Italia aveva chiesto e ottenuto una proroga al termine di conversione dei diritti in autorizzazioni. 

Alla luce della normativa approvata, i produttori potranno chiedere la conversione non entro il 31 dicembre 2015, ma cinque anni più tardi, i1 31 dicembre 2020. Da qui, decorrono tre anni di validità del autorizzazione, per cui il limite massimo per effettuare l’impianto del vigneto autorizzato è il 31 dicembre 2023. Nel frattempo, nel 2018 interverrà la revisione di metà percorso della Pac.

Non ci sarà un doppio binario

Sempre in sede di negoziato si era ventilata l’ipotesi di una sorta di doppio binario ovvero la possibilità di mantenere in vita il sistema dei diritti vigente, compresa quindi la possibilità della commercializzazione. 

L’ipotesi del doppio binario (diritti commercializzabili in attesa di convertirli in autorizzazioni), è preclusa e il sistema dei diritti di reimpianto è formalmente abolito il 31 dicembre 2015. 

Quello che la Commissione concede, in gran sostanza, è solo un lasso di tempo maggiore per dar modo a ogni azienda di valutare il momento più opportuno di convenire il diritto posseduto in autorizzazione. Trascorso infruttuosamente questo tempo, il diritto cocomunque decade ovvero, il 31 dicembre 2020 se il produttore non ha fatto richiesta di conversione, al più tardi il 31 dicembre 2023 se ha fatto richiesta di conversione, ma non ha effettuato l’impianto (e qui si pagherà la relativa sanzione). 

Bisogna sottolineare che, con il nuovo sistema autorizzativo, il settore viticolo manterrà comunque una forma di regolazione, e sarà l’unico a farlo nell’ambito della Pac, dato che le quote latte e le quote dello zucchero saranno definitivamente abolite.

Gli effetti su patrimonio viticolo

Il passaggio dai diritti di impianto al sistema delle autorizzazioni avrà un grande impatto sul potenziale viticolo nazionale. 

Il diritto era una sorta di paracadute per il vigneto Italia: consentiva a chi intendeva smettere l’attività produttiva di cederlo ad altri soggetti intenzionati invece a espandere il proprio vigneto. Questo sistema non faceva crescere il potenziale produttivo, ma ne limitava il depauperamento. 

Con il nuovo sistema di autorizzazioni, se l’espianto è dovuto a cause economiche o semplicemente all’età avanzata del titolare, quell’ettaro di vigneto andrà perduto per sempre, per due ragioni: 
- l’autorizzazione è data nominalmente all’azienda e ancorata alla sua superficie, per cui se l’azienda cessa, scompaiono anche le sue prerogative; 
- la soppressione del regime dei diritti, a partire dal 1° gennaio 2016, comporta la scomparsa delle “riserve”, che avrebbero potuto fungere da centri di raccolta delle autorizzazioni non richieste a seguito di espianto. 
In Italia, che ha visto e continua a vedere forti erosioni della superficie, il sistema autorizzativo mostra un altro problema. Le autorizzazioni consentono la possibilità di ampliare le superfici a vite degli Stati membri per una quota non superiore all’1% del totale vigneto nazionale. 

In Italia, il potenziale aumento del vigneto sarebbe di circa 6.000 ettari annui. A ciò si aggiungono i diritti in portafoglio e quelli delle riserve, che ammontano a circa 50.000 ettari; se venissero convertiti e piantati tutti nel giro di due anni, allora entrerebbero anch’essi nel calcolo dell’1%, contribuendo ad aumentare leggermente gli ettari a disposizione. 

Questa ragione è alla base della scelta del Ministero di sbloccare i diritti detenuti nelle riserve e dall’altra di revocare ove previsti i limiti alla commercializzazione extra regione, consentendo di sfruttare al massimo il meccanismo delle compravendite fino al 31 dicembre 2015. 

Per l’Italia, a questo punto, si pongono alcuni scenari: 
- quello peggiore, che vede un’ondata erosiva di ampia portata (negli ultimi dieci anni circa 7-8.000 ettari di vigneto l’anno non più rimpiazzabili dalla compravendita dei diritti), con richieste per nuove autorizzazioni che non arrivano a coprire il massimale dell’1% disponibile; in tal caso il saldo sarebbe zero o addirittura in passivo. 
- quello migliore, a fronte sempre di estirpi fisiologici per 4-5.000 ettari, di avere richieste che coprono i 6-7.000 ettari disponibili, quindi con un saldo finale di crescita di 2.000 ettari circa. 

Questo secondo scenario che prevede un saldo positivo tra cessazioni e nuovi impianti si produce se le autorizzazioni hanno un appeal appeal per le aziende. Qui un ruolo fondamentale avrà il meccanismo con cui verranno concesse. 

I Paesi possono agire in due fasi: per scremare sin dall’inizio le domande, attivando criteri preliminari di ammissibilità, e successivamente - in caso comunque di domande in eccesso - agendo con criteri di priorità. Ricordiamo a questo proposito un dettaglio non trascurabile, che deriva dall’architettura istituzionale della gestione della materia agricola, dove la Costituzione assegna un ruolo centrale alle Regioni. Il sistema autorizzativo dev’essere. quindi, condiviso con le Regioni: è facilmente intuibile che i 6.000 ettari potenziali finirebbero per essere suddivisi tra 21 Regioni e Province autonome che si troverebbero con richieste massicce, e altre invece con richieste inferiori al disponibile. 
È evidente quindi la necessità di attivare dei meccanismi di compensazione o travaso che allungherebbero in maniera esponenziale i tempi di rilascio delle autorizzazioni.

Sistema più rigido

Il nuovo sistema delle autorizzazioni permette un incremento delle superfici (1%), ma è più rigido dell’attuale sistema dei diritti di impianto, in quanto: 
- non consente di concentrare le autorizzazioni là dove servono e in tempi brevi; 
- non permette l’immediato trasferimento di ettari da zone in crisi a zone in espansione, penalizzando di fatto entrambe; 
- non garantisce a regioni, zone, aziende che hanno la possibilità di crescere la certezza di avere le risorse per farlo in tempi e quantità sufficienti allo scopo prefisso. 

Ad esempio, un fenomeno come quello del Prosecco, che ha drenato diritti di reimpianto per 4.000 ettari in 4 anni, non sarebbe più replicabile nelle modalità e nei tempi che lo hanno caratterizzato. 

Le conseguenze sono molto negative per un Paese come l’Italia, che presenta un panorama vitivinicolo molto variegato: 
- non avendo più meccanismi di “travaso” tra produttori o “riserve” dove far confluire le autorizzazioni non esercitate a seguito di espianto, non mette al riparo da dinamiche di crisi del sistema produttivo che portino a massicci abbandoni, come verificatisi negli anni recenti; 
- un saldo negativo tra espianti e nuovi impianti si ripercuote sull’1% della dotazione complessiva di autorizzazioni disponibile l’anno seguente, attivando una sorta di meccanismo involutivo del patrimonio vitato nazionale da cui sembra difficile uscire. 

Per alleggerire gli effetti negativi di questo nuovo sistema, due sono fattori che l’Italia deve valutare con grande attenzione: - i criteri di selezione delle domande; 
- il soggetto gestore delle concessioni. La scelta dell’Italia di revocare i limiti alla commercializzazione extra regione, consentendo di sfruttare al massimo il meccanismo delle compravendite fino al 31 dicembre 2015, va nella giusta direzione. 
Questa celta sarà prevista in un decreto ministeriale di prossima emanazione.

Conclusioni

I diritti di impianto sono una garanzia della viticoltura di qualità legata al territorio, che ha accompagnato l’espansione delle vendite di vino, con una crescita regolare del vigneto che ha contribuito a mantenere l’equilibrio tra offerta e domanda. 

L’abolizione dei diritti d’impianto genera conseguenze economiche e sociali gravi per il nostro Paese con rischi di eccedenze di produzione e di delocalizzazione in zone a più alta resa per ettaro. 

Il vino è il fiore all’occhiello del commercio agroalimentare italiano (4,4 miliardi di euro) con un fatturato di 10,7 miliardi di euro e riveste un ruolo strategico dal punto di vista economico e occupazionale in molte aree del Paese. 

La gestione degli impianti è importante per tutti i tipi di vino, sia Dop e Igp che quelli senza indicazione geografica; anzi le criticità della liberalizzazione sono ancora più marcate per i vini senza indicazione, in particolare quelli varietali, ai quali non è possibile applicare strumenti aggiuntivi di regolamentazione.

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117858_420x270L’erba medica potrebbe diventare la coltura di punta della prossima Pac. Favorita dalle misure del greening (è tra le specie azotofissatrici che ottemperano al vincolo relativo della presenza del 5% di superfici a seminativo in aree a interesse ecologico), incoraggiata da alcuni programmi di sviluppo rurale (la Lombardia ha previsto un aiuto di 190 €/ha per i nuovi medicai per un massimo di sei anni), la medica parrebbe la soluzione a tanti problemi, sia di carattere ambientale, sia agronomico per i piani colturali del prossimo anno di tantissime aziende agricole, anche non zootecniche. 

Innegabili vantaggi, è però necessaria un’approfondita riflessione economica. Vale la pena oggi seminare erba medica? Guardiamo ai principali mercati italiani ove è quotato il fieno di medica e confrontiamo i listini con quelli di esattamente un anno fa. Troviamo prezzi decisamente inferiori che, diversificati per taglio e piazza di quotazione, mostrano cali compresi fra il 20% e 39%. Le perdite maggiori si registrano sui mercati di Bologna e Mantova, soprattutto per i tagli migliori dal punto di vista qualitativo, ovvero quelli dal secondo al quarto. Sulla piazza emiliana, oggi il fieno di erba medica in balloni è quotato mediamente 120 €/t contro un prezzo medio di dicembre 2013 di 190 €/t. Così anche a Mantova, il secondo taglio è quotato in media 113 €/t rispetto ai 185 €/t di un anno fa. I motivi di tali performance negative sembrerebbero legati essenzialmente a tre fattori. In primo luogo, il positivo andamento stagionale, con elevata piovosità nel periodo estivo, ha favorito sensibilmente le rese anche nei terreni non irrigui, determinando un’abbondanza di prodotto, soprattutto per i tagli di luglio e agosto. Produzioni di 11-12 t/ha nella pianura lombarda e emiliana sono state di fatto la norma. In secondo luogo, la politica di contenimento delle produzioni di latte e formaggio decretate all’interno del comprensorio del Parmigiano Reggiano portano inevitabilmente a tirare il freno delle produzioni, penalizzando l’utilizzo di fonti proteiche come l’erba medica. Infine, per i motivi legati alla nuova Pac, gli operatori di mercato prevedono per la prossima campagna un aumento delle superfici a medica. 

A conti fatti, un produttore di fieno di medica, rispetto a un anno fa, incassa circa 800 €/ha in meno, perdita solo parzialmente compensata da una diminuzione di costi produttivi legata all’impiego minore di interventi irrigui. Insomma, con questi prezzi forse vale la pena riconsiderare le scelte colturali del prossimo anno. Nuova Pac permettendo.

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